sabato 10 ottobre 2015

La bomba di muro pezzuto, di Gerardo Rosci

La guerra era finita da tre anni. Quell’anno, noi ragazzi, avevamo scelto, come luogo per la merenda di pasquetta, Cesa Paradiso, cioè, la zona del monte Arunzo che sovrasta la chiesetta di San Giovanni, e da dove si gode una vista spettacolare su tutta la valle. Per l’occasione io mi ero attrezzato per preparata la bevanda: una bibita  base di aranciata, fatta con la cartina. Per poterla fare in modo che  rimanesse frizzante, avrei dovuto avere una bottiglia con il tappo a chiusura ermetica, come quelli delle gassose; ma chi te lo dava?  Non avevo neppure quella col tappo a vite, che avrebbe fatto al caso. Mi dovevo accontentare di una semplice bottiglia da chiudere con il tappo di sughero. Era una gara dura; appena  versavo la polverina contenuta nella cartina dentro la bottiglia piena d’acqua, questa iniziava a frizzare così forte che  non riuscivo  ad inserire in tempo il  tappo  a dovere; e poi, il tappo di sughero non teneva, e quando mollavo la presa, quello saltava via lasciando uscire quel poco di gas che si era formato.  Quindi, mi dovevo accontentare di  quell’acqua colorata dal vago sapore di arancia; e poi non era neppure fresca, ché allora non avevamo mica il frigorifero. L’unico ambiente un po’ refrigerato era la nostra cantina, costruita a ridosso della roccia. Comunque, allora ci si accontentava di poco.
In un sacchetto di tela, uno di quelli utilizzati per vari usi, sistemai tutte le mie vettovaglie che, come al solito, consistevano soprattutto in dolci e bevande; chiaramente tutto fatto in casa e regolarmente benedetto, come esigeva la devozione di allora : un pezzo di  pizza sbattuta tipo pan di spagna, un pezzo di ciambellone, alcuni biscotti, una ciambella di quelle che prima di andare al forno vanno sbollentate, un paio di arance, un uovo sodo, un pezzetto di uovo di cioccolata e la bottiglia di aranciata. Non mancava nulla; mancava solo la nutella, ma non era stata ancora inventata.
Appuntamento a Pitori, la parte alta di Petrella Liri. Eravamo sette od otto ragazzi.  Ci avviammo per la  salita che, passando per la zona delle stalle del Gazarino, conduce alla chiesetta di San Giovanni, alle falde del monte. Dopo una lunga arrampicata  per il sentiero scosceso, arrivammo a Cesa Paradiso, un luogo dove l’ambiente, di natura carsica e prettamente rocciosa, concede un poco di  spazio  a piccoli fazzoletti di terra coltivabile, comunemente chiamati cese.  Da questi mini appezzamenti, un tempo,  alcune famiglie abbienti cercavano di ricavare  il minimo per sopravvivere.
In uno di quegli spiazzi erbosi, ci sistemammo, tirando fuori le nostre dolci vettovaglie, sistemandole sopra  fogli di cartapaglia o di fazzolettoni. Seduti in cerchio, a vicenda scrutavamo con curiosità ed interesse quello che veniva fuori dai fagottelli degli altri compagni. Ricordo ancora  il profumo ed il sapore indimenticabile  di quei dolci, fatti dalle mani premurose delle nostre madri. Sapori  che si provavano soprattutto nel periodo  pasquale. Profumi che nell’approssimarsi della festa, salivano dai forni e si spandevano nell’aria.
Iniziammo il convivio, scambiandoci gli assaggi e complimentandoci a vicenda.  Quell’abbuffata di roba dolce capitava solo a Pasqua, per cui cercavamo di godercela al meglio.
Ad un certo momento, uno dei ragazzi più grandi disse:

- wajù, volimo i a Muro Pezzuto, a vedé la bomba?

Muro Pezzuto è una zona del Monte Arunzo distante alcune centinaia di metri a nord-ovest di Cesa Paradiso e dove spesso, di sera, si lasciavano i muli a pascolare durante la notte, per  poi recuperarli  al mattino seguente.  In quel posto, come raccontavano alcuni giovani mulattieri, c’era una bomba d’aereo, di piccole dimensioni, inesplosa. 
La proposta  venne accettata da tutti e, finita la nostra merenda ed i nostri giuochi, ci avviammo verso il luogo della bomba, seguendo Michele che conosceva  il percorso. Arrivati a destinazione, scorgemmo l’ordigno  disteso al sole su un piccolo spiazzo tra gli scogli. Eravamo tutti abbastanza emozionati e timorosi. Mamma mia! Una bomba vera che faceva paura solo a guardarla. Mi tornò  in mente lo scoppiettare dei colpi della contraerea che spesso entrava in azione  durante il periodo bellico, e quelle numerose nuvolette che  apparivano in cielo, al disopra del monte; noi bambini le guardavamo senza timore, ma le mamme ci richiamavano a casa, temendo che qualche scheggia potesse piovere sulle nostre teste. Probabilmente quella bomba era  stata lanciata in una di quelle occasioni.
Avanzammo verso di essa per guardarla meglio, da vicino. Gigino de Cabbulente, che era il più informato, intraprendente e spericolato, ci fece notare che  la bomba aveva il percussore completamente deformato; evidentemente nell’impatto, strisciando contro le roccia esso si era piegato lateralmente, senza poter penetrare verso il detonatore e far esplodere l’ordigno.  Da debita distanza, riparandoci dietro  spuntoni di roccia,  iniziammo a lanciarle delle grosse  pietre, pensando di poterla far esplodere. Benedetta incoscienza  ed ignoranza; non avevamo la benché minima idea degli effetti di un’eventuale esplosione. Credevamo che  l’unico effetto pericoloso fossero le schegge, non  considerando  lo schiacciamento che  l’enorme spostamento d’aria avrebbe procurato su di noi, facendoci volare  in aria. Comunque, nonostante i numerosi colpi andati a segno, la bomba restava immobile, quasi a sfidare la nostra testardaggine. Il solito Gigino lanciò  la proposta:

- andiamola a gettare giù dalle  rocce, sopra la Piava.
- ma che sei matto? Vuoi che ce la incolliamo fino la sopra? Ma poi se esplode fa un botto enorme e distrugge un sacco di pini; e poi ci scoprono e i carabinieri ci portano carcerato.
- ma che! La bomba non è tanto grande, e farebbe un botto come quelli che fa Jacoboni di Tagliacozzo alle feste di settembre. Dai, facciamo un po’ per uno.

Così dicendo, si caricò sulla spalla la bomba, che poteva pesare una quindicina di chili.
Tutti più o meno convinti sulla fattibilità dell’impresa e sulla non pericolosità di quel carico, tornammo indietro per lo stesso percorso, alternandoci nel trasporto.  Oltrepassata Cesa Paradiso, arrivammo all’altezza delle rocce, in prossimità de ” jo Pass’ ‘e jo lebbere”.
Qui posammo a terra il carico ed indugiando, in un momento di riflessione. 

- Che si fa?
- Dai, butta giù!

Lasciammo cadere la bomba dalla sommità del Passo del lepre, un canalone attraverso il quale si poteva, con  una certa abilità, scendere giù nella pineta. Tutti ci gettammo a terra, ma la bomba impattò a metà strada senza esplodere. Ormai si poteva dire che era stata collaudata. Non c’era pericolo che esplodesse.
Scendemmo lungo il passo tra le rocce e raggiungemmo l’ordigno e gli facemmo terminare  la caduta fino in fondo, alla base delle rocce stesse.

- E mo, che facciamo? Ci domandammo.

Il solito temerario e spericolato Gigino se ne uscì con una delle sue strane e strampalate proposte, da  incosciente  artificiere in erba:

- Sapete che faccio? Mo me la porto a casa, la taglio con la sega da ferro…, tiro via  la polvere  e porto la bomba vuota a jo cinciaro e ci rimedio un bel po’ di soldi.
- Ma che, sei pazzo? Prima di tutto è veramente pericoloso e poi,   pensi di poterla aprire come ‘na cococcia?
-Ma non state a preoccuparvi ché ci penso io; ci provo.

La trasportammo, ancora a spalla, scendendo giù, tra i pini,  verso il paese. 
Arrivati sulla strada, vicino le stalle del  Gazarino, togliemmo un filo di ferro da una siepe a ci agganciammo la bomba per il codolo, per poterla trascinare.
Gigino abitava non lontano da dove eravamo. Trascinammo quell’ordigno per tutta la discesa, fino a Pitori, come se fosse un pezzo di legno, uno di quei ciocchi  che  radunavamo davanti alla chiesa, per il fuoco di Natale.
Quando fummo nell’abitato, alcune donne che passavano, alla vista di ciò che  trascinavamo, con le  mani nei capelli gridavano:

- Madonna mé! Sant’Antonio mi!... Ma che sete pazzi!?... Brutti lazzaruni, se ‘ssa cósa  scoppia ci ammazza a tutti! Portetela via!  Lontano! Madonna mé, Madonna me  aiutaci!

Ma noi proseguivamo, tanto Gigino abitava a due passi. Lasciammo Gigino e la sua bomba nel cortiletto davanti casa sua, tornandocene, con qualche perplessità, alle nostre case.
Naturalmente il nostro artificiere in erba non riuscì nel suo intento e non so neppure quale fu la reazione dei genitori alla vista dell’oggetto; lui era abbastanza avvezzo a prenderle di santa ragione dai suoi, per quante era solito combinarne. Sta di fatto che dopo qualche tempo, era arrivato lo stracciarolo; si era sistemato nello slargo davanti  la scuola, come facevano solitamente i venditori ambulanti di allora: gli spezini, i venditori di pignate di terracotta, venditori calzature ecc..Gigino tentò di vendergli la bomba così come stava. Chiaramente l’uomo, scuotendo la testa, gli fece capire quanto quella  proposta fosse da matti.
Accidenti, e adesso che fare di quell’ingombrante fardello? Il roveto della scarpata sottostante fu il rimedio temporaneo. Vi fu gettata e vi rimase per qualche tempo, finché un giorno, alcuni compagni, ignorando che nel roveto c'era una vi  avevamo appiccato il  fuoco. Tra il fumo e le fiamme intravidi  e riconobbi la bomba e questa volta ebbi veramente paura che potesse esplodere, proprio vicino alla chiesa; rimediai una  lunga pertica e con essa la tirai fuori dal fuoco.
Non saprei dire quali altri percorsi fece, ma ricordo che rimase per molto  tempo presso la stradina che conduceva giù alle casette del Fossetello;  a quel tempo non esisteva ancora il muro di sostegno del piazzale. Giaceva lì, dentro l’alveo del fossetello che correva lungo le casette, tra l’ignorante indifferenza della gente.
La notò, finalmente, un capitano dell’esercito che, essendo sposato con una donna originaria del luogo, trascorreva le sue vacanze estive nel nostro paese.
Meravigliatissimo del fatto che un tale pericoloso ordigno potesse essere abbandonato in quel modo, avvertì immediatamente i carabinieri affinché provvedessero a rimuoverla e farla brillare in una zona lontana e sicura.
Quel giorno noi ragazzini eravamo in giro nella zona di San Rocco, che a quel tempo era quasi completamente abbandonata e  disabitata; notammo due carabinieri che passavano, sulle loro classiche biciclette nere marca Bianchi, diretti verso Tagliacozzo. Appesa alla canna di una delle biciclette c’era una grossa borsa rigonfia. Stavano trasportando la nostra bomba per  l’ultimo tratto della sua storia.
Dopo un’oretta circa, si udì in lontananza una cupa esplosione; la bomba era stata fatta esplodere  all’imboccatura della grotta di Beatrice Cenci.
Noi ragazzi  ci sentimmo quasi in dovere di  andare a fare un sopralluogo. Sul posto ritrovammo, con una certa emozione, alcune schegge della nostra bomba, da tenere come cimelio.  

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