domenica 2 agosto 2015

Gli sci di una volta, di Gerardo Rosci

Quando arrivava la neve era sempre un momento di eccitazione per noi ragazzi di allora. Per gli adulti, al contrario, era sempre un momento di preoccupazione. La vita diventava più difficile. Le attività subivano un notevole rallentamento. Gli animali, costretti a rimanere al chiuso delle stalle, depauperavano le riserve di foraggio.
Ma noi ragazzi cercavamo di vedere il lato positivo dell’inverno. Di sci, che si potessero chiamare tali, in paese ce ne erano tre o quattro paia, ma ce li avevano ragazzi adulti. Erano di quelli artigianali, tutti di legno, senza lamine, con degli attacchi senza lo sgancio che, se si cadeva, lo sci restava attaccato allo scarpone. Lo scarpone? Gli scarponi erano quelli che si portavano tutti i giorni, d’inverno e d’estate; quelli fatti dal calzolaio, con le bullette sotto la suola; quegli scarponi che “sgranavano” sui selciati delle nostre strade; quelli che dal rumore ti facevano indovinare chi appartenessero passando. Venivano ingrassati con il sego di pecora, sciolto in un piccolo recipiente, per renderli morbidi, per proteggerli e renderli un poco impermeabili; ma l’umidità della neve entrava ugualmente. Spesso entrava dalle stesse suole, dove qualche bulletta si era sfilata, lasciandovi il foro; la neve, poi, entrava dal collo della scarpa che arrivava appena alla caviglia; insomma, alla sera si avevano sempre i calzettoni umidi; anzi, spesso completamente zuppi. Sciare, per noi ragazzi era un giuoco spesso quasi proibito. “Te li metto al fuoco!!” era la minaccia che molto spesso ci gridavano i nostri genitori, vedendoci ridotti in quel modo, infreddoliti e bagnati. Perciò i nostri sci li nascondevamo nei posti più impensati; io li riponevo nel fienile, sotto il fieno.
Quei nostri sci erano dei veri pezzi di legno; ce li facevamo da soli; bastavano un tronchetto di legno, un’accetta, una roncola, un pezzo di cinta - difficile da reperire - e dei chiodi. Anche i chiodi erano abbastanza difficili da trovare; quelli disponibili erano quelli per ferrare i cavalli, che non andavano bene, perché terminando con la testa a forma di cuneo, spaccavano il legno. Ci toccava andare dal calzolaio per rimediare un poco di semenze, usate e da raddrizzare.

I MIEI PRIMI SCI

La nostra cantina, adibita a legnaia, era molto ben fornita di legna da ardere; legna di faggio, quella trasportata con i muli dalle nostre montagne, in occasione dell’annuale assegnazione, da parte del comune, del lotto di macchia per uso civico (comunemente chiamato ”quarto”). Non era importante che fosse stagionata, anzi, quella “verde” era più tenera e si lavorava meglio. Nella legnaia mi ritiravo spesso, su invito di mia madre, per spaccare quella grossa, per il fuoco. Usavo l’accetta, i cunei (zeppe) di ferro e la mazza. La legna da ardere era lunga, normalmente, circa un metro. Quel giorno scelsi il pezzo di legno che mi sembrava più adatto allo scopo; del diametro di circa dieci centimetri, dritto con una leggera curvatura in fondo. Quella curvatura doveva essere sfruttata per le punte degli sci. Usando accetta e cunei, lo spaccai in due. Lavorando di roncola e di raspa (la mia abilità manuale si rivelava già da allora), riuscii ad ottenere due tavolette quasi uguali, con delle punte vagamente rialzate. Per levigarli, soprattutto nella parte di sotto, utilizzai dei pezzi di lastre vetro, usati come rasiera.
Erano quasi pronti; mancavano gli attacchi. Una vecchia cinta di canapa, serviva allo scopo: ne feci due pezzi e la inchiodai, con le semenze, agli sci, per poterli calzare come degli zoccoli.
I bastoncini? Fortunato chi riusciva a rimediare un paio di manici di scopa. Ad ogni modo, dalla catasta della legna si riusciva, quasi sempre, a trovare qualche bastone abbastanza dritto, da adattare all’uopo.
I terreni a portata di mano per sciare non erano molti. Quelli più adatti, a tale scopo, erano abbastanza distanti e, per tanto, difficili da raggiungere con la neve alta.
Ci si riuniva sul campo; si era sempre un gruppetto di cinque o sei ragazzi o più. Il compagno più bravo aveva il compito di tracciare la pista. Gli sci, troppo corti, affondavano nella neve ed avanzavano con difficoltà. Spingendo con i due “tortori”, si effettuava una specie di binario, dritto e lungo che, nel migliore dei casi, poteva raggiungere una cinquantina di metri. Quella era la pista, nella quale tutti si cimentavano. Curvare? Impossibile; e come avremmo mai potuto!? Con quel tipo di “attacchi”, se si provava a fare una qualche forzatura, il tacco della scarpa scivolava lateralmente e si finiva col cadere. D’altra parte quel tipo di tracciato, incassato nella neve, era un binario obbligato. E si partiva, a volte in fila indiana, e se il primo cadeva, gli altri si ammucchiavano su di lui.
Se la discesa era troppo ripida o se si era poco esperti o timoroso, si scendeva con il bastone tra le gambe: serviva come terzo punto di appoggio e di equilibrio e, allo stesso tempo, come freno; più ci si appoggiava, con il sedere al bastone, più si frenava. Con questo sistema si riusciva a scendere persino per le ripide strade del paese con i gradini. Ciò, però, non era ben visto dalle donne, soprattutto quelle anziane, perché in tal modo si formavano lastre di ghiaccio pericolose. Per ovviare a tale pericolo, esse cospargevano di cenere la zona davanti casa.


Gerardo Rosci

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