venerdì 24 luglio 2015

I pastori a Cappadocia, di Mario Cosciotti



DALLA CAMPAGNA ROMANA A CAPPADOCIA

I greggi di ovini, composti da circa 1500 capi, arrivavano sui nostri monti ricoperti da verdi pascoli verso i primi giorni di giugno, quando le campagne del Lazio bruciavano per la siccità; ad ogni padrone, il Comune di Cappadocia (AQ) assegnava un lotto su cui pascolare: chi andava a Morbano, chi a Vallevona, chi a Campolungo, chi alla Dogana; quest’ultimo era quello assegnato a mio padre responsabile di un gregge di circa 1500 ovini che proveniva dalla Tenuta Acqua Acetosa in via Laurentina km 9 a Roma. Anche gli altri provenivano quasi tutti dalle campagne laziali, ed ogni estate tutti questi animali si mettevano in movimento. Agli inizi del Novecento, il tragitto veniva fatto a piedi e durava circa tre giorni; i pastori con i loro greggi, attraversando valli, tratturi e montagne, dopo un viaggio massacrante sia per gli animali che per gli uomini, raggiungevano la pace delle nostre bellissime montagne.
Negli anni che seguirono, i trasferimenti venivano fatti metà con il treno fino alla stazione di Oricola - Pereto (Carsoli), metà a piedi, risalendo le montagne di Pereto che confinano con quelle di Cappadocia; Ai nostri giorni vengono fatti con autotreni, adattati al trasporto degli ovini, viaggi molto più comodi, se si eccettua una certa fatica per far entrare le pecore nelle gabbie di ferro, montate sui camion. Quando si avvicinava la data della partenza, qualche giorno prima, alcuni addetti portavano le masserizie sul lotto loro assegnato, e dopo aver scelto il luogo dove fare lo stazzo, si affannavano a far subito le mandre (1), in modo che appena i greggi arrivavano, potessero trovare pronti i propri recinti per la notte: dopo le mandre, altro recinto da fare subito era j’avato (2), recinto fatto come gli altri con le reti, però a forma d’imbuto, con tanti posti quanti erano i pastori addetti alla mungitura; Un altro compito di questi addetti era anche quello di preparare i capanni dove far dormire i pastori, uno per ognuno; venivano fatti con aste di faggio fresco: si piantavano per terra una vicina all’altra, poi si piegavano a forma d’arco e si legavano fra loro, quindi altre aste si incrociavano in senso orizzontale, si legavano anch’esse, e lo scheletro del capanno era bello e fatto. Si procedeva poi a fare la base a quindici cm da terra, sempre con paletti di legno, due della lunghezza del capanno più grandi messi in senso orizzontale, gli altri poggiati sopra di traverso, posti tutti alle stessa distanza e legati, cosi che anche la rete era pronta; si pensi alle toghe di oggi giorno… un certo quantitativo di foglie di faggio verdi diventavano il materasso, una piccola porticina fatta nello stesso modo a forma d’arco veniva posta alla fine del capanno, una buona copertura con un telo impermeabile e il letto era pronto e profumava di foglie verdi di faggio!! Dentro un capanno come questo, penso di aver fatto i più bei sonni della vita mia! Anche per le galline, in tutto una ventina, gallo compreso, ne veniva costruito uno. Voi non immaginate che divoratrici di grilli sono le galline e quante migliaia e migliaia di grilli vivono sulle nostre montagne; oltre le pecore e tre cani pastori abruzzesi, la masseria era costituita da un mulo usato come cavalcatura e due asini usati per il trasporto di formaggio, ricotta e legna. La capanna era più grande e di solito rimaneva intatta anche per l’anno successivo e bastava qualche riparazione per rimetterla in sesto.

IO, ULTIMO CASCIAREGLIO

Nella capanna c’erano due rapazzole (4) per qualsiasi evenienza, vi si mettevano le provviste, ci s’intratteneva vicino al fuoco la sera, vi si preparava la cena e la colazione e vi si faceva il formaggio e la ricotta, però solo in caso di pioggia. Un' altra cosa da costruire subito era il cosiddetto copellaro, non era altro che una specie di tettoia ricoperta sempre da foglie di faggio per fare ombra, sotto il quale si trovavano due aste parallele di faggio e sopra le quali poggiavano di solito quattro copelle (5) che contenevano circa 25 litri di acqua per ognuna, ed era compito de jo casciaréglio andare al fontanile tutti i giorni con gli asini, e riempirle d’acqua. Altro compito de jo casciarejo era trasportare tutti i giorni formaggio fresco e ricotta dallo stazzo a Cappadocia, per venderli poi subito ai villeggianti e agli abitanti del luogo; il viaggio durava circa un’ora e mezzo e spesso ci si incontrava con gli altri casciareji che provenivano da sentieri e pascoli diversi, e si percorreva insieme l’ultimo tratto di strada che portava fino al paese. Appena giunto al paese, jo casciaréglio scaricava il formaggio nella cantina, portava le bestie nella stalla e gli dava il fieno. Il suo compito però non finiva lì; faceva subito la spesa che i pastori gli avevano ordinato e poi fino all’ora di pranzo era libero. Dopo pranzo tirava fuori gli animali dalla stalla, caricava sopra gli asini la spesa che aveva fatto e si rimetteva in cammino verso lo stazzo da dove era venuto, insieme a qualche compagno al quale aveva dato appuntamento; questo viavai su e giù per la montagna era il suo compito e durava per tutta l’estate. Quante volte sulla strada del ritorno, lampi, tuoni e piogge torrenziali mi accompagnavano fino allo stazzo!! Dove, tutto fradicio, entravo nella capanna e accendevo subito il fuoco per asciugarmi i vestiti.
Se penso che oggi, ogni lotto ha il suo rifugio in cemento, fatto di due camere e un grande camino, che si può raggiungere anche con le autovetture, mi prende una certa rabbia, perché ripenso a tutti i viaggi fatti percorrendo quei viottoli mulattieri!!
Verso le dieci del mattino, prima non era possibile perché le fundicelle (6) erano sempre ricoperte di nebbia, i pastori abbassavano le reti e portavano al pascolo i greggi; si dirigevano, per abbeverarli, verso i due fontanili appartenenti al nostro lotto; uno, il più grande, Fonte San Nicola, la cui acqua sgorga gelida dalla roccia e penso che sia l’acqua più buona di tutte le nostre montagne; il secondo, la Fonte della Spina (7), più piccola ma più vicina, rimaneva sul lato opposto, solo che in estate quando pioveva poco, l’acqua che usciva era talmente poca che per riempire 4 copelle ci voleva quasi un’ ora.
Ogni dieci giorni le pecore, verso sera prima di rientrare, venivano fatte passare alle salere (8). Ricordo di una lepre che tutte le sere andava anche lei a leccare il sale alle salere.
La sera, quando i pastori ritornavano dal pascolo, mettevano le pecore nei recinti e poi si recavano a j’ avato per la mungitura; seduti sulle loro banchette (9) con il secchio per il latte ben serrato tra le ginocchia, aspettavano che le pecore, spinte da jo biscino (10) s’incanalassero nelle bocchette, per poi bloccarle, ponendo sul loro collo j’ancino (11) legato ad un paletto.
Finita la mungitura jo casciere (12) versava il latte che ogni pastore aveva nel proprio secchio in una grande caldaia facendolo passare attraverso la cola (13) per filtrarlo, liberandolo così da ogni sorta di sporcizia. Poi fatto scaldare il latte alla temperatura giusta, 35/38 °C, toglieva la caldaia dal fuoco, vi versava dentro il caglio naturale (14) dopo aver mescolato un po’, e quindi aspettava la cagliata 20/25 minuti circa; dopo rimetteva la caldaia sul fuoco e mescolando co jo rompituro (15)
rompeva la cagliata e la portava ad una temperatura di cottura di 40/42 °C, per circa 10/15 minuti, fino a quando il formaggio non assumeva la consistenza di chicchi di granturco; quindi tolta la caldaia dal fuoco, il formaggio veniva fatto depositare sul fondo della caldaia e pressato con le mani, poi segato con un filo e depositato in apposite forme (16), dove veniva pigiato con le mani per essere spurgato dal siero.
Il siero di latte, avanzato dalla lavorazione del formaggio, veniva invece utilizzato per fare la ricotta. Messo di nuovo sul fuoco e mescolandolo in continuazione, veniva portato ad una temperatura di circa 80/85 °C. Dopo circa 45 minuti, la ricotta saliva in superficie e raccolta con la schiumarola, veniva messa in apposite fuscelle di giunco e fatta scolare; Spesso i pastori, quando non avevano voglia di cucinare, per far colazione prendevano una scodella e vi versavano dentro siero e ricotta calda e dopo avervi messo del pane, si preparavano una ricca colazione detta mpanata. Al termine di tutta la lavorazione casearia, i pastori ormai liberi da ogni incombenza, potevano dedicarsi ognuno alle proprie attività personali.
Al mattino presto, dopo la mungitura, si ripetevano tutte le attività della sera; ed io, casciaréglio, dopo aver sistemato nelle ceste, formette e ricotte, montavo sulla mia mula e mi mettevo in viaggio alla volta del paese, con gli asini che camminavano davanti a me con il loro prezioso carico…...
Ai primi di agosto tutte le attività casearie venivano a cessare per permettere alle pecore, già al terzo mese di gravidanza, di potersi preparare per il nuovo ciclo riproduttivo che si sarebbe compiuto appena tornate nelle campagne del Lazio, da dove erano venute…
Settembre è arrivato, è tempo di migrare. La transumanza ha inizio…oggi dopo tanto tempo, torno con la mente a quei tempi, alle lunghe giornate al seguito delle greggi. Lo faccio recitando a mente la lirica di D’Annunzio…



I pastori

Settembre andiamo. E’ tempo di migrare.
Ora in terra d’Abruzzi i miei pastori
Lascian gli stazzi e vanno verso il mare:
scendono all’Adriatico selvaggio
che verde è come i pascoli dei monti

Han bevuto profondamente ai fonti
Alpestri, che sapor d’acqua natìa
Rimanga ne’ cuori esuli a conforto.
Che lungo illuda la lor sete in via.
Rinnovato hanno verga d’avellano.

E vanno pel tratturo antico al piano,
quasi per un erbal fiume silente,
su le vestigia degli antichi padri.
O voce di colui che primamente
Conosce il tremolar della marina!

Ora lungh’esso il litoral cammina
La greggia. Senza mutamento è l’aria
Il sole imbiondì sì la viva lana
Che quasi dalla sabbia non divaria.
Isciacquio, calpestìo, dolci romori.
Ah perché non son io co’ miei pastori?


(1): recinti, di solito a forma quadrata, con reti di canapa e bastoni di legno ben piantati

(2): il mungitoio

(3): così veniva chiamato il ragazzo addetto ai piccoli servizi dello stazzo

(4): posti letto

(5): piccole botticelle fatte di legno

(6): così era chiamata la zona dove era situato lo stazzo

(7): detta così perché l’acqua nasce sotto una pianta di uva spina

(8): non erano altro che grosse pietre lisce sopra le quali veniva versato il sale, perché l’ erba della montagna è insipida e quindi agli animali viene dato del sale come integratore

(9): di legno a forma di mezzaluna con tre piedi

(10): colui che toccava a j’avato, la mungitura

(11): legno ricurvo a forma di V

(12): il casaro, colui che fa il formaggi

(13): tela di canapa

(14): estratto dallo stomaco dell’agnello ancora lattante, veniva messo ad essiccare all’aria, poi triturato e reso granuloso, veniva conservato con olio e sale in un barattolo

(15): bastone di legno di spino con varie ramificazioni sulla punta

(16): cassi di legno di faggio



NOTE: 

Il contenuto di questo articolo si basa sulla mia esperienza diretta di casciaréglio, mestiere che ho svolto unitamente a quello di pastore insieme a mio padre, negli anni Sessanta.
Desidero ringraziare il Dott. Alessandro Fiorillo, ricercatore storico e webmaster del sito internet del paese di Cappadocia, con il quale collaboro allo sviluppo e la crescita del suddetto spazio web e alla raccolta delle tradizioni storiche locali.



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